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Storie di comunità

Luca, infermiere di comunità

Intervista del febbraio 2021

In quanto infermiere in una comunità protetta a Nembro mi sono trovato a vivere e gestire una situazione mai vissuta. Mi occupo di psichiatria e noi, come realtà, siamo da sempre fortemente sottoposti all’isolamento, così come allo stigma. Il mio impegno da vent’anni a questa parte è però sempre stato quello di cercare un’integrazione per queste persone. L’impegno all’integrazione di chi soffre di problemi psichiatrici è sempre stato fonte di stimolanti situazioni e bei risultati; spesso sono stati difficili da raggiungere, ma credo fermamente nella funzione riabilitativa dello stare in mezzo alla gente, soprattutto per le persone con cui lavoro. Con il Covid-19 è crollato tutto.

Innanzitutto, è bene dire che non abbiamo avuto casi di positività all’interno della comunità, o, meglio, abbiamo avuto alcuni casi sospetti che sono stati tenuti in isolamento ma per i quali non è stato fatto un tampone e/o un esame sierologico. Inoltre, abbiamo avuto la fortuna di non avere lutti interni alla nostra piccola comunità. Questa condizione favorevole non ci ha però protetto da situazioni difficili, complesse e non sempre di facile comprensione. La Regione Lombardia, come sappiamo, ha dato delle linee guida molto severe rispetto alle strutture residenziali; queste prevedevano che agli utenti non fosse più concesso andare a casa in permesso o anche solo uscire dalla struttura se non accompagnati da un operatore e che i parenti – almeno per i primi mesi – non avessero in alcun modo accesso alla struttura. Le linee guida regionali andavano quindi nella direzione opposta rispetto a tutto quello che abbiamo sempre cercato di fare e gli utenti hanno fatto molta fatica ad adeguarsi. Quelli che avevano la possibilità di andarsene hanno chiesto le dimissioni e sono stati lasciati andare anche se non avevano finito il percorso terapeutico che avevamo previsto, sapevamo infatti che la realtà che avrebbero vissuto dentro la comunità con tali restrizioni sarebbe stata comunque deleteria.

Ci siamo poi trovati a non avere più contatti anche con chi, pur avendo terminato il percorso residenziale, considera la comunità un punto di riferimento per il proprio percorso iniziale sul territorio. Anche per loro non era più possibile avere contatti con noi.

Tutt’oggi questa situazione di chiusura e incertezza permane; cambia il colore della zona, ma non cambia quello che possiamo fare. Qualcosa del loro percorso è stato conservato: chi aveva un lavoro ha potuto tenerlo, altri hanno continuato a svolgere delle attività risocializzanti presso il centro diurno (dunque comunque sempre all’interno di uno spazio psichiatrico). In questi mesi ci siamo trovati a dover ricostruire il “manicomio” che era stato chiuso nel 1978 con la Legge Basaglia e devo ammettere che per me è stato pesante, anche a livello personale. In passato ho lavorato cinque anni nel reparto SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dove l’infermiere, oltre alle funzioni infermieristiche, ha anche dei compiti di custodia e alla fine ho lasciato il reparto perché non mi vedevo in questa figura. Oggi mi ritrovo a dovere assolvere le stesse funzioni di custodia che non mi appartengono. Sono consapevole che la psichiatria sia alle dipendenze del Ministero degli Interni e in qualche modo regolata dalla polizia, ma credo sia fondamentale che al centro di ciascun percorso psichiatrico ci sia la funzione riabilitativa e di risocializzazione, non una chiusura fine a se stessa. Oggi, febbraio 2021, fatichiamo però a fare quello che vorremmo. È proprio evidente che la preoccupazione maggiore è quella di tenere isolate queste persone, ma così facendo la questione sanitaria personale viene messa in secondo piano – cosa che si addice ad un’emergenza, ma non a lunghi periodi temporali. Ad oggi, per esempio, loro non hanno mai fatto un tampone. Devono stare lì, chiusi all’interno di una comunità che ora invece che proteggerli li imprigiona. Solo ieri (primo febbraio 2021) gli infermieri hanno fatto un piccolo corso per poter fare i tamponi e finalmente, a distanza di quasi un anno, inizieremo anche noi a fare i tamponi ai nostri utenti. Lo stesso vale per i vaccini, che sono stati fatti agli anziani delle case di riposo così come a noi, personale sanitario, ma che per ora non sono stati programmati per i nostri pazienti, che sono stati completamente dimenticati.

Qualcuno arriverà forse a pensare anche a loro prima o poi.

Noi ci pensiamo ogni giorno, ma con gli strumenti che abbiamo non abbiamo modo di aiutarli davvero. Cerchiamo di fare in modo che quello che accade nella nostra comunità sia simile a quello che accade in tutte le case: diamo molta cura alla preparazione dei pasti, che sono diventati ancor di più un importante momento di scambio e comunicazione, abbiamo cercato di inventarci dei giochi, di coinvolgerli in attività ludico-ricreative e fargli sentire di appartenere a una comunità, seppur piccola e circoscritta. I problemi con i quali ci dobbiamo confrontare sono di varia natura. Da una parte i nostri utenti sono spesso poco sensibili agli stimoli e non sempre sono in grado fornirne di interessanti; questa è per loro un’abilità che va allenata e che solo con grandi sforzi e nella continuità di attività quotidiana può essere mantenuta o implementata. Dall’altra, non abbiamo gli spazi adatti. Per esempio, abbiamo iniziato un’attività di giardinaggio, ma non abbiamo né un giardino, né un orto: utilizziamo dei vasi. Adesso stiamo progettando un’attività di teatro, ma anche in questo caso abbiamo dovuto cercare degli spazi più grandi rispetto ai nostri. Grazie a delle reti sociali di cui disponiamo, siamo in contatto con la Cascina Terra Buona e, fortunatamente, saremo loro ospiti e potremo occupare uno dei loro spazi. Cerchiamo davvero di inventarci di tutto per aiutarli a stare bene e per garantire almeno una parte dei loro diritti. Quest’estate siamo stati in Liguria, anche se solo per un giorno. Ogni anno noi progettavamo delle vacanze, come fanno tutti, ed erano anche dei viaggi importanti, tant’è che siamo stati anche in Francia, Spagna, Inghilterra e abbiamo negli anni toccato tanti punti d’Italia. Quest’anno, per via delle restrizioni, abbiamo potuto fare solo un giorno e abbiamo comunque cercando di far sì che gli utenti non venissero mai a contatto diretto con altre persone – che è l’esatto opposto di quello che di solito ci impegniamo a fare, ossia incentivare lo stare insieme e la socializzazione. Altre attività serali che cerchiamo di mantenere e che coinvolgono la psicologa – perché siamo un’equipe multidisciplinare con infermieri, psicologi, medici e psichiatri – sono la creazione di gruppi di discussione a seguito della lettura di fumetti o di materiale video.

Rispetto alle stringenti limitazioni del primo lockdown, abbiamo potuto attuare alcune variazioni a partire dall’estate. Per esempio, sono ricominciate le visite dei parenti: una persona per utente, una volta alla settimana e in un ambiente protetto. Il problema, anche in questo caso, è che non abbiamo gli spazi: non possono entrare in struttura e, ancora oggi, usiamo un cortiletto esterno. Se il tempo è troppo rigido, utilizziamo eccezionalmente la sala riunioni, che ovviamente viene ogni volta sanificata. Cerchiamo inoltre di uscire tutti i giorni per una passeggiata, anche se dobbiamo stare sempre vicino alla struttura.

Non so cosa si sarebbe potuto fare di meglio, ma queste persone sono sole e non dovrebbero esserlo. In questo periodo la preoccupazione principale fosse la tutela della salute fisica, ma non basta. Gli utenti hanno perso moltissime capacità, oggi è molto più difficile stimolarli e non so se riusciremo a riportarli al livello in cui erano prima – anche se quel livello era già insufficiente per una “normalità” e richiedeva appunto un percorso riabilitativo. La situazione è grave e la salute psichica dei nostri pazienti è davvero messa a repentaglio: quest’anno, per esempio, abbiamo avuto un aumento dei ricoveri in ospedale per motivi psichiatrici.

Ovviamente adottiamo tutte le regole di distanziamento e tutela della salute di noi stessi e degli altri. Gli spazi, però, sono quelli che sono; basti pensare che abbiamo un solo bagno per le donne e uno per gli uomini. Inoltre, essendo noi infermieri, nei mesi di marzo e aprile abbiamo prestato servizio anche in ospedale. E andavamo proprio negli ambienti più infetti e questa cosa metteva a rischio la comunità, ma, vista l’emergenza, questo pericolo non è stato considerato (o meglio, è stata valutata come la soluzione migliore).

Adesso abbiamo la voglia di andare oltre, di ricominciare. Stiamo chiedendo per esempio l’accesso ad uno spazio del Comune di Nembro per proseguire con le riunioni di confronto, che per noi sono fondamentali e che abbiamo dovuto sospendere in questi mesi. Come operatori, spesso lavoriamo anche da soli con i ragazzi e questo rende necessario un continuo confronto di ciascun lavoratore con tutti gli altri. Le scelte che ognuno di noi prende devono sempre essere scelte che rispondono ad un piano terapeutico individualizzato e condiviso con l’intera squadra; questo piano necessita d’altronde di un confronto continuo per poter essere riadattato in base alle esigenze che man mano sorgono. Solitamente potevamo fare affidamento su di una riunione settimanale nella quale ci incontravamo tutti, ma da quando c’è questa emergenza non ci è permesso incontrarci tutti insieme e purtroppo può capitare che non si veda direttamente un collega per intere settimane o comunque non sia mai possibile confrontarsi con tutta l’equipe. Avendo uno spazio più grande, potremmo ricominciare a riunirci in tutta sicurezza, migliorando il nostro lavoro e proteggendo la nostra salute. Un fattore molto importante da considerare è anche la pesantezza che ci portiamo addosso e la necessità, anche per noi, di un confronto con i colleghi e con chi conosce bene ciò che stiamo passando. Stiamo comunque usando i vari supporti informatici, tant’è che anche alcuni utenti stanno ancora facendo i colloqui con gli psicologi e gli psichiatri da remoto. Una cosa davvero assurda perché un colloquio di questo tipo necessità di una presenza fisica; sono infatti convinto che quando una persona deve parlare di cose difficili anche solo da esprimere abbia bisogno di una vicinanza fisica. Certo, se questo è l’unico strumento che abbiamo lo usiamo e cerchiamo di trarne il meglio e ovviamente il sostegno agli utenti non è così mai stato sospeso, ma sono certo che si potrebbe fare di meglio. Ciò che manca sono le risorse.

Noi abbiamo sempre favorito il rientro a casa degli utenti, anche solo il fine settimana. Alcuni utenti si sono però rifiutati di uscire; avevano infatti paura ad uscire senza la certezza che qualcosa sarebbe cambiato e non sarebbero più potuti rientrare. Per loro la comunità è l’unica soluzione, per quanto difficile, ma hanno così perso un’occasione importante di socialità all’interno del proprio nucleo famigliare.

Per tutti loro uscire è comunque sempre una difficoltà. Se siamo noi che glielo impediamo, gli utenti si “siedono” e perdono ogni tipo di stimolo. Si stanno abituando a una routine che diventa completamente paralizzante. Ogni nuovo progetto diventa difficile da far partire; un esempio è il corso di teatro, che solitamente riscuoteva abbastanza interesse, e che questa volta ha richiesto tutto il nostro impegno solo per avere un minimo di adesioni. È un grande dolore per noi vedere il loro disinteresse, il loro essere restii alle nuove opportunità. Qualche giorno fa la Lombardia è rientrata in zona gialla e, sulla scia dell’entusiasmo di questa nuova condizione, ho chiesto ai ragazzi dove avrebbero voluto andare; non ho ricevuto alcuna risposta. Per quanto le nostre attività non si siano mai fermate, è venuta meno la tensione emotiva. Non c’è più partecipazione. Una volta facevamo ginnastica in cortile, una partita. Oggi le stesse proposte cadono nel nulla. Riesco giusto a fare qualche partita a carte, ma niente più. Non hanno più prospettive.

Speriamo solo di poter ripartire dalla vaccinazione di massa.

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Giovanna, 56 anni, Coordinatrice CDD di Nembro

Intervista del dicembre 2020

Rivedo le prime giornate dell’“era Covid” pensando a quanta inconsapevolezza avessi, anche perché ho un ruolo di responsabilità nei confronti degli utenti e degli operatori. Io personalmente sono sempre stata portata a non essere pessimista e/o allarmista, per cui mi rammarico di avere un po’ sottovalutato la situazione nella sua fase iniziale.

Ricordo che c’era la richiesta da parte degli operatori dell’utilizzo delle mascherine, così come del mettere in atto delle pratiche di distanziamento, ma, contemporaneamente, c’era stato detto dagli organi competenti (ATS) che non ce n’era assolutamente bisogno; per cui vivevamo la richiesta dei dispositivi di protezioni ulteriori quasi come un eccesso di allarmismo.

C’è stata insomma molta confusione e si attendeva fino all’ultimo per avere direttive e informazioni precise. Ricordo, per esempio, che quando è uscito il primo DPCM era domenica e fino alle 10 di sera non sapevamo nulla su quali potessero essere le restrizioni o le regole che avremmo dovuto seguire dal giorno seguente. A quel punto la nostra cooperativa, anticipando le regole ministeriali, ha deciso una giornata di chiusura per avere modo di avvisare le famiglie per tempo; a noi sembrava ovvio che delle persone fragili come quelle che curiamo dovessero essere le persone più tutelate. In modo del tutto inaspettato, il giorno dopo ci è stato intimato di riaprire: è stata una decisione davvero difficile da gestire e da comprendere.

Poi è successo, in modo repentino: Nembro è diventato l’epicentro di questa emergenza sanitaria. Il nostro CDD ha la sede tra la casa di riposo di Nembro e l’ospedale di Alzano Lombardo e la prima persona che è venuta a mancare, il primo decesso conclamato Covid-19, sapevamo essere il signore che faceva attraversare i bambini della scuola elementare situata vicino alla nostra sede. Eravamo davvero basiti, senza parole. Proprio quel giorno, tra l’altro, ci avevano detto che avremmo avuto delle multe per aver deciso per la chiusura in modo autonomo.

È stato il periodo della “Nembro zona rossa”. Come dicevo, dopo il primo giorno di chiusura decisa da noi ci hanno fatto riaprire. Lo abbiamo fatto, ma molti familiari hanno tenuto comunque a casa i loro figli e devo dire che forse è stata una scelta che ci/li ha salvati.

Di settimana in settimana le notizie si aggravavano: le ultime settimane di febbraio sono state un periodo di grossa incertezza e di crescente preoccupazione, così come di difficile gestione del Servizio.

Quelle di febbraio/marzo sono giornate che si fa fatica anche a descrivere come un periodo omogeneo perché il minimo cambiamento di ogni giorno ha provocato delle gravi conseguenze se visto in prospettiva. Le notizie, inoltre, si aggravavano in modo esponenziale.

Poi io credo che come abbiamo vissuto noi, in quel periodo nel nostro territorio, questa crisi sanitaria non l’abbia vissuta nessuno.

Il mese di marzo è stato un mese pesante per quanto riguarda me e il mio Servizio: le notizie gravi diventavano più vicine.

Innanzitutto, avevamo avuto un utente deceduto a metà febbraio. Il suo funerale è stato il 21 febbraio, perciò la settimana precedente l’inizio delle restrizioni, io vi ho partecipato, molti altri gli hanno fatto visita. All’inizio di marzo poi abbiamo avuto la notizia del decesso del papà, della grave malattia della madre (curata in casa) e del ricovero di due dei fratelli in terapia intensiva. Temo fortemente che quel funerale possa essere stato un veicolo di trasmissione: erano ancora i funerali come li vivevamo prima, in cui ci si abbracciava e si stava a stretto contatto per testimoniare meglio la vicinanza emotiva.

Il dramma più grosso è stato quello di una nostra utente, a cui sono morti entrambi i genitori ed è stata anch’essa ricoverata per un lungo periodo. Ma c’è da dire che, tutto sommato, nel nostro Servizio, queste situazioni drammatiche non sono state così diffuse come temevamo: fortunatamente gli utenti sono stati relativamente tutelati.

A marzo cercavo di tenere i contatti con i familiari attraverso chiamate settimanali. Di questo periodo ricordo, al di là della vicinanza che si è creata, gli elementi di forte preoccupazione che vivevano quotidianamente. Non riuscivo a credere a quel che mi era stato riportato e tra l’altro, in quel momento, non riuscivo neanche a verificare se fosse successo. Non potevo uscire per vedere se c’erano i necrologi e, non avevo il numero di telefono dei figli per confermare la notizia. Soffrivamo tutti poi della modalità dei lutti, dalla lontananza all’impossibilità di svolgere il funerale. È stato un periodo di forte sofferenza.

Ma la cosa che forse si ricorda meno è la precarietà delle indicazioni sul da farsi: inizialmente si pensava dovesse durare una settimana, poi dieci giorni, poi un mese e via dicendo. Si andava avanti per tentativi.

All’inizio le telefonate ai familiari erano più che altro per avvisare delle temporanee chiusure, per capire le esigenze degli utenti e delle famiglie o le loro opinioni a riguardo di chiusure o aperture.

Penso sia stato aprile il mese in cui abbiamo incominciato invece a strutturare degli interventi, a pensare che sarebbe stato utile ridefinirli alla luce del perdurare della situazione. In collaborazione con gli operatori e con una nostra esperta si è incominciato a parlare di mandare loro dei video di saluto per far sapere ai nostri utenti che noi eravamo ancora lì per loro.

Gli educatori sono il riferimento di due o tre utenti e in maniera spontanea avevano già iniziato a tenere delle telefonate ai loro assistiti: una scelta a livello personale per non lasciare solo chi gli era più vicino. Successivamente è arrivato però anche l’incarico ufficiale dai nostri dirigenti.

Nella nostra Cooperativa c’è stato il ricovero in terapia intensiva del nostro Presidente, il Sig. Fabrizio Persico, a complicare la situazione e che purtroppo è venuto a mancare nel maggio 2020. Oltre al profondo dolore umano abbiamo dunque dovuto affrontare anche uno sbandamento in termini amministrativi. Come se non bastasse, tra l’altro, anche il Responsabile del CDD aveva dato le dimissioni a gennaio. Praticamente ci siamo ritrovate sole, io e la mia collega (lei vicepresidente della cooperativa), nel gestire questa situazione emergenziale senza i referenti a cui di solito eravamo abituate.

Ad ogni modo ci sono stati dei tavoli di lavoro a livello provinciale, costituiti anche da Confcooperative e dalle rappresentanze dei genitori, nei quali si incominciava a ipotizzare dei progetti di sostegno alle famiglie che prevedevano sia un intervento a distanza che un intervento domiciliare, ed eventualmente un’apertura parziale.

Era sempre più evidente che il periodo di lockdown sarebbe andato per le lunghe. Così ad aprile abbiamo introdotto nuove strategie. Abbiamo incominciato prima di tutto a prendere confidenza noi con i nuovi strumenti di lavoro. L’introduzione di progetti che prevedevano strumenti informatici, che potrebbe sembrare una banalità, ci ha invece nuovamente messo a dura prova. Nell’adottare queste nuove strategie dovevano essere convinti anche gli operatori perché sembrava una cosa un po’ impossibile riuscire a lavorare con i nostri utenti, con le loro disabilità, attraverso questi strumenti telematici. Alla fine, però l’esperienza è stata più positiva di quello che potevamo immaginare.

La stragrande maggioranza degli utenti ha risposto positivamente.

Elemento fondamentale per la buona riuscita di questi progetti è senz’altro stata la risposta positiva da parte dei familiari. Abbiamo inviato video di saluti, letto fiabe, cercato di costruire dei luoghi di micro-socialità con collegamenti di due o tre utenti alla volta. Abbiamo dovuto reinventarci e adattarci a ogni specifica situazione.

Ho sentito forte la volontà e la necessità di adattamento perché ho capito che, anche un semplice contatto telefonico, era davvero importante.

Abbiamo potuto introdurre ulteriori strategie per continuare a offrire il nostro Servizio: a giugno, anche se ormai a ridosso dell’apertura estiva, siamo riusciti a partire con l’assistenza domiciliare e il 29 dello stesso mese abbiamo anche attivato una prima riapertura parziale. Una riapertura particolare perché era stata data la disponibilità alle famiglie di accedere al Servizio, ma rimanevamo libere di scegliere. In quel momento abbiamo dunque tenuto in piedi tre tipi di servizio diversi anziché uno e, credetemi, non è stato semplice. Abbiamo dovuto pensare, creare e coordinare nuovi servizi in tempi brevissimi e mettendo in atto tutte le norme di sicurezza che ormai tutti ben conosciamo, ma che allora erano tutte da costruire. Non c’erano sabato o domenica, così come sera o mattina; ci confrontavamo quasi quotidianamente con nuovi decreti e nuove normative statali e/o regionali e abbiamo cercato di offrire servizi ben strutturati in tempi sensibilmente ridotti rispetto al solito.

Mentre i primi mesi li ricordo come molto dolorosi dal punto di vista emotivo, ricordo più la fatica organizzativa, fisica e mentale del secondo periodo. Ho imparato moltissimo in questo periodo, anche perché molto spesso l’organizzazione era qualcosa di inedito, c’era tutto da fare e da inventare.

I ragazzi sono stati straordinari, anche quelli più gravi o con problemi comportamentali forti hanno reagito bene alle restrizioni e ai nuovi stimoli, lo stesso si può dire delle famiglie. L’assistenza domiciliare ha funzionato e devo dire anche il reinserimento in struttura, cosa per nulla scontata.

Certo, qualche difficoltà c’è stata. Penso, per esempio, agli utenti che si caratterizzano per una certa incontenibilità fisica, ossia che hanno bisogno del contato fisico in genere. Abbiamo dovuto pensare per loro dei progetti ad hoc con l’obiettivo di insegnar loro quali modalità nuove potevano usare come, ad esempio, mandarsi “un bacio che vola” invece che darlo sulla guancia.

Abbiamo dovuto riorganizzare tutto il lavoro, che è stato completamente stravolto da questa pandemia. L’adattabilità, la flessibilità e il progetto individualizzato sono i cardini del nostro operato. Amiamo moltissimo intessere legami di collaborazione, tant’è che avevamo progetti attivi con molti enti: col CDD di Albino, con la scuola alberghiera di Nembro, con la Biblioteca Centro Cultura, la casa di riposo, l’oratorio e le scuole sempre di Nembro. Avevamo anche la nostra attività teatrale, per la quale eravamo riusciti ad attivare una collaborazione con gli studenti dell’Istituto Romero. Tutti questi progetti oggi sono purtroppo sospesi.

Di certo è possibile trovare anche dei lati positivi, o meglio possiamo cercare di tirar fuori il meglio anche da questa esperienza. Ad esempio, ora la nostra quotidianità è meno frenetica, più lenta. Non avendo appuntamenti fissi o orari così rigidi come prima, il tempo delle nostre giornate è più rilassato; il ché forse ci aiuta anche un po’, o meglio è più congeniale ad alcuni utenti che fanno un po’ fatica a stare dietro ai cambiamenti veloci.

Anche se, c’è da dire, per noi ci sono delle difficoltà in più. Penso, per esempio, alla “partita” della temperatura corporea. Si prova la temperatura all’ingresso, anche se c’è l’indicazione i genitori la provino anche prima di uscire di casa. Alcuni nostri utenti hanno però degli sbalzi di temperatura corporea improvvisi che non dipendono da infezioni virali; abbiamo verificato che le persone con tetraparesi spastica, infatti, possono avere episodi di febbre improvvisa anche molto alta e, dopo poco tempo e con solo un po’ di riposo, tornare ad una temperatura normale.

Ora come ora faccio un po’ fatica a tirare le somme di quanto abbiamo vissuto.

A volte ripenso anche solo ad eventi accaduti due mesi fa e mi stupisco di come tutto sia diverso da oggi.  Mi spiace solo che in questo momento si sia persa un po’ quella sensazione di coesione sociale che, pur nel distanziamento, nella prima ondata invece sembrava che ci unisse. Questo orgoglio e questo “compatire” e questo “essere reattivi” anche in positivo. Dobbiamo cercare di essere un po’ più resistenti nel credere in noi stessi, nel credere nel positivo che possiamo costruire. Dobbiamo alimentare una visione positiva. Adesso vorrei, e mi sembra che a volte si veda, che si riesca a trovare quella capacità e libertà di inventarci qualche cosa. Come, per esempio, lo spettacolo della prima della Scala: non si poteva fare la solita serata della prima e si è fatto di più! Si è inventato qualcosa di completamente nuovo.

Ecco, questo è quello che vorrei fare nel CDD con i miei operatori: inventare qualcosa di nuovo, creare occasioni, sentirsi liberi di cercare e provare nuove strade.

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Cristina, 49 anni, educatrici presso il Centro Diurno

Intervista del dicembre 2020

Il primo approccio con la grande emergenza sanitaria è stato fin da subito di relativa consapevolezza circa la gravità della situazione visto che il nostro centro diurno è gestito dall’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate. Non abbiamo neanche pensato di tentare di mantenere aperti i nostri servizi; abbiamo chiuso tutto subito. La nostra prima reazione è stata quella di telefonare a tutti i nostri pazienti e dire che per il momento il centro era chiuso, di rimanere a casa e che li avremmo ricontattati telefonicamente appena possibile. C’era l’idea della gravità della situazione, ma, da parte di noi operatori, il non sapere esattamente come affrontarla. Le direttive erano comunque a breve termine, quindi navigavamo a vista con una serie di misure che venivano prese di settimana in settimana, ma abbiamo percepito fin da subito l’urgenza di fare qualcosa. Dovevamo trovare il modo di essere un supporto per i nostri utenti, che in quel momento non stavano affatto bene.

Le attività ambulatoriali sono state gestite sempre da remoto: alcune tramite videochiamata, altri, come le persone più anziane che non avevano i mezzi adeguati, si sentivano semplicemente al telefono.

Nel Centro Diurno in cui lavoro eravamo invece, a fine marzo, ancora in una fase di chiusura totale, ma restavano da gestire le persone con le patologie più gravi: la chiusura, la solitudine, la scarsa rete sociale acuivano i loro disturbi. Eravamo davvero confusi sul da farsi, finché ci hanno detto che per i casi più gravi potevamo accogliere qualcuno. Non molti, ma quelle due o tre persone che comunque richiedevano un’assistenza immediata. La paura era comunque tanta perché non sapevamo niente di questo virus (come si trasmette, cosa è necessario fare per evitare il contagio, i suoi effetti) ed è stata forse questa generale incertezza la cosa più difficile da affrontare. Alcuni colleghi si sono ammalati e abbiamo dovuto affrontare anche quel tipo di paura, ossia l’apprensione per la salute di chi lavora ogni giorno a stretto contatto con noi. D’altra parte, dovevamo organizzare l’arrivo di alcuni utenti con particolari esigenze all’interno del Centro Diurno; queste persone venivano da fuori e quindi non potevamo monitorarle direttamente, non avevamo alcun tipo di controllo o conoscenza su chi incontrassero e se mantenevano gli accorgimenti sanitari che ci venivano suggeriti. Tutta questa situazione ci ha fortemente destabilizzato. L’incertezza riguardava noi e i nostri utenti: qualcuno, pur stando male, non voleva né venire al Centro, né sentirci, qualcun altro avrebbe invece voluto raggiungerci, ma non sapeva come. Nei nostri pazienti abbiamo percepito tanta, tanta paura e soprattutto un atteggiamento di chiusura. Queste persone sono per loro natura già molto restie ad aprirsi all’altro e questa situazione li ha portati a chiudersi ulteriormente; in questa chiusura hanno però trovato tanta sofferenza. Inoltre, purtroppo, alcuni hanno contratto il Covid-19, il che di certo ha reso le cose ancora più complicate.

Poi, piano piano e con l’avanzare della primavera, abbiamo ricominciato a pensare al futuro a seguito della riduzione del livello di emergenza. Verso maggio/giugno abbiamo iniziato un percorso di graduale riapertura, seppur contingentata e secondo tutte le regole di igiene e distanziamento: al centro poteva accedere un numero limitato di persone in ciascuna stanza e per non più di due ore ciascuno. Siamo ritornati a una realtà apparentemente normale fino a novembre, quando poi tutto è stato rimesso nuovamente in discussione. Avendo però l’esperienza pregressa e le direttive precedenti, abbiamo gestito al meglio la situazione.

C’è da dire che la reintroduzione di norme più rigide a partire da fine ottobre e la suddivisione temporanea in diverse fasce di colore (tra rosso e arancione) ha mandato in tilt qualche nostro paziente, che non ha più voluto accedere alla struttura e si è nuovamente chiuso in casa.

La cosa che spesso sfugge a chi ci guarda da fuori è che noi dobbiamo gestire due aspetti: quello psicologico e quello sanitario. Se è vero che l’isolamento domestico protegge dalla malattia fisica, nello stesso tempo peggiora molte delle patologie di cui sono affetti i nostri pazienti. Abbiamo quindi sempre cercato di tenere in considerazione entrambe le esigenze.

Nei periodi di chiusura abbiamo messo in atto una modalità di comunicazione con i pazienti prettamente telefonica. Ciclicamente, nell’arco della settimana, sentivamo tutti i nostri pazienti per informarci sulla loro situazione. Facevamo un vero e proprio supporto telefonico. Noi operatori lavoravamo a rotazione, generalmente settimanale, così da garantire il servizio.

Anche dalle situazioni più complesse si possono però trarre degli insegnamenti positivi. Il fatto di essere obbligati a optare per una turnazione, mi ha spinta a ripensare al nostro lavoro con maggiore dinamicità: così, invece che rimanere fissi nel Centro per tutta la giornata, a volte è meglio ridividersi le attività giornaliere e concentrarsi su pochi interventi, ma ben pensati. Lo stesso vale per il lato clinico: i medici psicologi hanno scoperto una nuova modalità per rapportarsi al paziente, ossia da remoto, che potrà sempre tornare utile in casi di necessità. È stata proprio la straordinarietà di questo periodo a permetterci di migliorare anche sotto l’aspetto tecnologico, offrendoci così nuovi strumenti in grado di arricchirci anche professionalmente. Questa nuova informatizzazione del lavoro ovviamente non è stata semplicissima; durante le prime riunioni ricordo il caos generato dalle connessioni instabili, da strumenti non proprio adeguati e della non familiarità con quest’ultimi. Abbiamo dovuto installare le videocamere sui nostri PC, perché prima ne eravamo sprovvisti, così come munirci di portatili per garantire a tutti la connessione. Sono molto felice di questa possibilità di crescita, che in fondo mi ha permesso di scoprire nuove potenzialità. Tutti abbiamo imparato qualcosa e fatto un passo avanti dal punto di vista tecnologico; oggi sappiano che, nell’emergenza, possiamo avvalerci anche degli strumenti informatici.

È stato un anno molto particolare quello passato, quasi come avessimo vissuto in un limbo. Sembra a volte di esserselo perso, di non aver vissuto, perché siamo rimasti fermi tanto nelle nostre case o luoghi d’appartenenza, quanto nella crescita e nelle esperienze. Di positivo c’è che abbiamo rallentato i ritmi e che, di conseguenza, abbiamo avuto più tempo per pensare. Questo tempo lento ci ha portato a riflettere maggiormente sulle relazioni, sulle dinamiche personali e all’interno dei propri ambiti famigliari. Abbiamo dovuto pensare a ciò che rimaneva, e non per tutti è stato positivo; tanti, purtroppo, si sono ritrovati soli e anche questa presa di coscienza penso sia stata pesante per tante persone. Se prima potendoti spostare potevi incontrare chi volevi, in quei mesi tutto ciò che avevi era quello che ti circondava.

In questo periodo ho poi avuto modo di riscoprire molti dei nostri utenti. L’uso del telefono, che da mezzo di brevi comunicazioni è diventato lo strumento attraverso cui parlare, ha permesso a molti utenti che erano sempre stati taciturni e chiusi di aprirsi e diventare dei gran chiacchieroni; la voglia di parlare con qualcuno ha probabilmente cambiato il loro usuale modo di confrontarsi con l’altro. Nel rapporto coi colleghi il cambiamento più significativo è stato proprio nell’aspetto più fisico. In primo luogo, ovviamente, la distanza che tutti conosciamo, d’altra parte l’obbligo a indossare mascherine, guanti, camici. Ci siamo abituati a una distanza fatta di velature e strati, non solo di lontananza. Adesso le direttive sono cambiate e anche la paura è diminuita, ma le nuove abitudini che abbiamo dovuto far nostre hanno cambiato il modo di relazionarci all’altro, collega o utente che sia.

Al di là del positivo che cerchiamo all’interno di questo periodo, da un punto di vista professionale non possiamo nascondere di aver avuto dei grossi limiti. Il progetto che seguo presso la Biblioteca Centro Cultura di Nembro, come ho già accennato, è andato a singhiozzo e queste temporanee sospensioni hanno influito molto sulla mia quotidianità lavorativa, perché io lì ci investivo gran parte del mio tempo e delle mie energie. Anche le ragazze che usufruiscono di questo progetto si sono trovate un po’ “abbandonate” perché sono rimaste a casa e senza più questa possibilità di relazionarsi col mondo esterno. In questo periodo a loro è rimasto infatti solo l’ambiente famigliare.

Una differenza fondamentale tra le due fasi di chiusura (marzo/aprile, novembre/oggi) è che nella prima c’è stata la paura, specialmente nel nostro territorio. In quel periodo stavamo infatti vivendo una situazione emotiva pesantissima con un numero di decessi altissimo. Il trauma del continuo suono delle ambulanze, per esempio, è qualcosa che mi è rimasto ancora oggi: quando sento le sirene dell’ambulanza mi viene una sensazione di blocco allo stomaco, che prima non avevo mai vissuto. Ci vorrà del tempo per riuscire a non vivere in modo così angosciato questo suono.  Nella seconda fase, invece, la paura era più contenuta, sia per i numeri, inferiori, che per la consapevolezza acquisita.

A livello strettamente familiare e personale ho apprezzato il clima di unione, anche se so che la chiusura per molti è stata vissuta in modo del tutto diverso. Però l’aspetto positivo è presente solo se questa situazione la si circoscrive in un periodo relativamente breve; anche la famiglia per ben funzionare ha bisogno che ciascun membro abbia continue relazioni con l’esterno. A livello lavorativo, invece, l’unico aspetto positivo è stato forse quello di avere più tempo per riflettere, progettare e confrontarci fra colleghi. Non avevamo la necessità di lavorare sull’oggi, il ché ci ha permesso di dedicare un tempo maggiore alla progettazione. 

I nostri pazienti, invece, si sono sicuramente impoveriti tantissimo. Loro hanno bisogno di allenamento quotidiano, di mantenere le abilità che hanno; tant’è che al rientro dal primo lockdown abbiamo notato una diminuzione molto grave della abilità precedentemente acquisite, sia di quelle relazionali che di quelle manuali. Molti non stanno frequentando il centro neanche ora, nella chiusura invernale, e scopriremo che cosa è accaduto solo quando riprenderanno a venire. Li abbiamo lasciati con delle abilità, ritornano e non le hanno più: devono ricominciare da capo. Per alcuni nostri utenti, per esempio, il fatto stesso di venire al centro è una forzatura, imposta da una necessità medica. Perdere quest’occasione di movimento e confronto è per loro una perdita enorme di capacità, perché poi ritornare ad affrontare il fuori diventerà complesso: anche solo ricominciare a prendere il tram per molti sarà difficile.

Ci confrontiamo dunque con i due lati della medaglia: c’è l’utente che, impressionato dalle notizie che continua a sentire o leggere, non vuole più uscire di casa e quello che invece si fa solo sfiorare dalle cose e continua la sua quotidianità come se nulla fosse. Il nostro lavoro oggi è anche quello di mediare fra questi due opposti. Ci siamo sempre resi disponibili per i nostri utenti, invitandoli a contattarci ogni qual volta ne sentivano il bisogno. Abbiamo fatto tutto il possibile per fargli capire che non erano da soli, per non farli mai sentire soli, e per loro questo è stato davvero importante.

Facendo parte dell’azienda ospedaliera, noi del Centro Diurno abbiamo sempre seguito le direttive imposte dal dipartimento e/o dal primario. All’inizio non è stato semplice capire nel pratico con quali attività potessimo andare avanti e come dovevamo modificarle o quando era necessario annullarle; oggi abbiamo invece imparato a gestirci meglio. Stiamo funzionando così come sta funzionando la sanità: a regime ridotto, ma costante. Sono aumentate le richieste di consulenza psicologica, tant’è che i nostri psicologici sono molto sotto pressione. Il dato è presto giustificato dalla situazione complessa che stiamo vivendo e che in molti casi spinge le persone a chiedere un supporto di cui prima non sentivano il bisogno.

Quello che più mi ha colpito in questo periodo è la solitudine, davvero tanta, che qualcuno è stato costretto a vivere a seguito di questa situazione di isolamento e che non porta mai a qualcosa di positivo. Penso ai nostri pazienti, a quelli che sapevamo più soli, con poche reti e ai quali abbiamo dedicato maggiore attenzione. La solitudine che ho visto e percepito mi è rimasta dentro; ciascuno di noi ha bisogno di relazione e vivere l’abbandono che subivano alcuni di loro mi ha colpita nel profondo. In questa situazione di emergenza c’è stata una solitudine impressionante all’interno della nostra comunità, non dimentichiamoci mai delle persone che sono sole.

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Storie di comunità

Barbara, 50 anni, coordinatrice del “Progetto Usignolo”

Intervista del gennaio 2021

Per quanto in modo silente e allora non chiaramente comprensibile, il Covid-19 si era affacciato nella nostra quotidianità ben prima di quanto pensassimo. Nei giorni antecedenti il 23 febbraio 2020 avevo registrato un’insolita e sostanziale mancanza di volontari e bambini all’interno delle attività dell’oratorio e in particolar modo all’interno dello spazio compiti per via di varie forme influenzali. D’altra parte, iniziava a esserci nei confronti di questa malattia un po’ di curiosità e timore, che mai avrei pensato potesse raggiungere e travolgere le nostre vite. Ancora oggi sono rammaricata per aver sottovalutato una situazione così delicata e rivelatesi una vera tempesta sulle nostre vite e di aver condiviso questo giudizio affrettato anche con i ragazzi.

Lo spartiacque è stato per noi il 23 febbraio, quando l’Oratorio di Nembro ha chiuso.

Arriviamo a marzo e scopriamo quello che scoprono tutti e cioè che non è proprio una semplice influenza o, meglio, capiamo che non è gestibile come tale. Dai primi di marzo fino ad arrivare ai primi di aprile tutto si è fermato. In questo lasso di tempo c’è il 10 marzo, che è stata per noi la giornata peggiore in assoluto in termini di lutto e dolore e che penso ci ricorderemo per tutta la vita. In quel momento, devo essere onesta, non mi veniva neanche da pensare a cosa poter fare. Ero immobilizzata dal dolore e da tutto ciò che sentivo e vedevo intorno a me. Era come se fossi finita in una bolla, tartassata incessantemente dalle devastanti notizie che continuavano ad arrivare. L’intera comunità nembrese è stata travolta in pieno da questa emergenza e nemmeno noi, come piccola equipe educativa, riuscivamo a elaborare proposte concrete. Abbiamo iniziato solo verso i primi di aprile a concepire dei pensieri propositivi.

Nel frattempo, avevamo delle notizie, peraltro tragiche, ma non riuscivo a capire cosa stesse esattamente succedendo agli altri, e non trovavo il coraggio di telefonare. Potevo riuscire ad escluderne la morte, ma non potevo sapere se fossero malati, ricoverati e, se sì, in quali condizioni.

Verso i primi di aprile ho ricevuto una telefonata da parte di una volontaria e, grazie a lei, riesco ad avere delle informazioni sugli altri e in particolar modo sulle persone più anziane. È da lì che inizia per me un percorso completamente diverso: riesco a sbloccarmi, a rompere finalmente quella bolla che mi aveva tenuta sospesa.

Ci siamo così interrogati su quali necessità fossero nate nei bambini (e nelle famiglie) che solitamente seguivamo, ed erano fondamentalmente due. La prima era di carattere didattico, ossia la necessità di fornire il giusto supporto nello svolgimento dei compiti a casa, mentre la seconda era di carattere pratico, ossia la difficoltà a reperire materiale scolastico.

Prima di tutto abbiamo pensato ad un’offerta di supporto didattico a distanza. È stato un percorso lungo, ma, grazie al supporto di alcuni ragazzi che hanno costruito ad hoc una piattaforma Zoom, siamo riusciti a far partire il progetto poco prima di Pasqua.

L’altra necessità che era venuta a galla era, come dicevo, era di carattere più pratico. I nostri bambini non andavano a scuola, neanche quelli della primaria, e abbiamo iniziato a capire che c’erano delle famiglie che non riuscivano né a fare videochiamate (o comunque a mantenere un contatto con gli insegnanti), né tantomeno ad avere il materiale scolastico necessario: scarseggiavano i pastelli, i pennarelli e le matite per fare i compiti, mancavano le fotocopie, perché non c’erano stampanti in casa o l’inchiostro era finito.

Così abbiamo attivato un numero di cellulare “emergenza usignolo”. Supportati ovviamente dei Servizi Sociali del comune, abbiamo scelto alcuni volontari adulti provenienti dai diversi quartieri di Nembro, così che potessero muoversi il meno possibile sui vari punti del paese, e che, con tanto di cartellino di riconoscimento, si sono presi la responsabilità di recapitare a casa il materiale richiesto dalle famiglie in difficoltà.

In tutto questo c’è stata anche la necessità di attivare un sostegno alla programmazione e all’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione. In collaborazione con le scuole, ci siamo infatti attivati per sostenere le famiglie che avevano ricevuto un tablet o un PC insegnandogli ad usarlo. Abbiamo trascorso queste ore cercando di dare una mano e cercando di essere il ponte, il collegamento tra chi proprio non aveva mezzi di comunicazione e le maestre. Nell’ambiente scolastico c’era tanta disorganizzazione, non certo per colpa di qualcuno.

Penso che questo difficile periodo abbia arricchito un po’ tutti. Io, per esempio, ho iniziato ad instaurare un nuovo rapporto con le famiglie che hanno richiesto e accettato il nostro aiuto. Sembra banale, ma anche solo l’uso del cellulare in sostituzione alla mail (di cui per altro c’era un digiuno assoluto) ha fatto una grande differenza. L’uso della linea dedicata e di WhatsApp, nello specifico, si è rivelato essenziale per costruire una comunicazione diretta e immediata, e continua tutt’oggi. In questo modo siamo anche riusciti a tutelare la privacy di tutti.

Usciti dalla prima fase emergenziale, abbiamo poi ricontattato i volontari, e non è stato facile né per noi, né per loro. Non è semplice rimettersi a disposizione correndo comunque dei rischi, perché l’emergenza sanitaria non è finita, e non è stato facile per me trovare le parole per consolarli o per spingerli ad andare avanti.

Così abbiamo continuato fino alla fine di maggio/inizi di giugno.

La nostra piattaforma per le videochiamate è stata strutturata ad hoc per le nostre necessità. Innanzitutto, nessun utente ha i dati del volontario e viceversa. Anche se poi la realtà è stata leggermente diversa (perché magari qualche genitore ha recuperato il numero dell’educatore per necessità o conoscenze comuni), abbiamo cercato di garantire la privacy di tutti (incontrandoci anche per strada per far firmare il modulo corrispondente). Questa piattaforma mi permette di vedere il calendario condiviso delle lezioni (su GoogleDrive) e avere così uno sguardo complessivo sull’intera organizzazione. Questa possibilità si è rivelata fondamentale specialmente in una prima fase poiché, sempre per tutelare la privacy, non potevamo avere più di una lezione alla volta visto che avevamo solo un link “Usignolo” da poter utilizzare (e non uno per educatore/bambino). Erano giorni strani, non c’era più sabato o domenica, tant’è che abbiamo fatto lezione sia al mattino che la sera, e persino il giorno di Pasqua. In questo modo potevo assistere all’inizio delle lezioni e, chiedendo di parlare con i genitori, riuscivo a capire come stavano, se avevano dei bisogni e di che tipo. La condizione famigliare e psicofisica dei bambini era poi quello che più interessava non solo a noi, ma anche al mondo dei Servizi Sociali e alla scuola. Il “progetto usignolo” è infatti nato all’interno dell’Oratorio di Nembro, ma negli ultimi anni ha iniziato a creare delle strette collaborazioni con Caritas, Patronato San Vincenzo e Centro Ascolto. Questi progetti di aiuto sociale hanno oggi la stessa regia di coordinamento e questo mi ha permesso durante la pandemia di fare da tramite tra le famiglie in difficoltà e gli enti che potevano aiutarle. Questo lavoro in rete, iniziato per noi tre anni fa e di cui non comprendevo fino in fondo il potenziale, si è rivelato in questa situazione emergenziale di grande valore. Abbiamo compreso fino in fondo l’importanza del dialogo tra associazioni e del lavorare in rete.

Da ottobre 2020 abbiamo, vista la diminuzione dei casi, abbiamo continuato con i nostri volontari storici e, stando molto attenti ai turni, al distanziamento e ad abbinare sempre lo stesso gruppo di bambini con il medesimo volontario, abbiamo ripreso le lezioni in presenza. Purtroppo, questa ripresa è durata solo tre settimane, perché poi, con l’aumento dei casi, abbiamo dovuto sospendere nuovamente gli incontri. Questa volta, però, ci eravamo preparati per tempo. Nelle settimane precedenti, grazie all’aiuto dei nostri ragazzi, abbiamo “connesso” tutti i volontari che si sono resi disponibili e che non erano affatto avvezzi agli strumenti informatici. Adesso la piattaforma permette la pianificazione e lo svolgimento di più lezioni in contemporanea, il ché ha semplificato molto l’intera organizzazione. Ogni volontario ha infatti ora un codice personale e ciascun bambino, all’ora prestabilita, clicca su quel link per poter avviare la chiamata.

Ci sono ovviamente dei limiti pratici, non possiamo nasconderlo. Il compito fatto, per esempio, non sempre viene rivisto dal volontario perché non è affatto semplice anche solo condividere immagini istantanee. In questi casi, però, la complicità che nel tempo si è creata fra volontario e famiglia è tale da pensare a degli escamotage per ovviare al problema, magari fuori dagli schemi, ma se serve per aiutare i bambini va bene anche così: è un modo alternativo anche per creare comunità e integrazione. Più di prima, in questo periodo si sta creando infatti un senso di comunità e integrazione basato su rapporti costanti e comunicazione diretta. Oggi continuiamo con gli spazi dedicati all’aiuto compiti, ma è venuto meno il sostegno rispetto alla consegna a domicilio del materiale scolastico, visto che la situazione attuale permette comunque maggiori spostamenti. Rimaniamo comunque sempre disponibili e rispondere a qualsiasi necessità ed è nostra cura fornire tutto l’aiuto che possiamo.

Con l’allentamento delle restrizioni, stiamo cercando oggi di offrire un aiuto specifico ai bambini che ne hanno un disperato bisogno. Abbiamo riscontrato molto spesso un analfabetismo informatico molto grave che si trasforma nell’impossibilità per i bambini di seguire qualsivoglia lezione. Abbiamo sempre fatto tutto il possibile per accogliere tutti e sempre, ma adesso purtroppo dobbiamo accogliere prima di tutto solo chi ne ha un reale bisogno. Il lato positivo nel negativo è che chi viene sta apprendendo molto. Anche i limiti della video-lezione vengono infatti superati dai benefici di avere un educatore per ciascun bambino e dunque delle lezioni costruite sulle necessità del singolo utente e dei suoi bisogni.

L’aspetto su cui vorrei puntare l’attenzione è la voglia di questi volontari, spesso persone anziane, di tornare ad aiutare i nostri bambini per dare un senso ai loro giorni, per riprendersi quella prospettiva futura a cui erano abituati e godersi gli anni che hanno ancora davanti vivendo a pieno e sperimentando ancora. La voglia di smettere di vivere sospesi e ricominciare, con tutte le precauzioni, a fare esperienze. D’altra parte, vorrei sottolineare quanto sono stati bravi i bambini. Nelle tre settimane che abbiamo riaperto sono stati diligenti e attenti nel proteggere se stessi e gli altri. Stupisce la capacità di accettare il cambiamento e il rispetto verso l’altro.

Sopravvive chi si adatta, mai come in questo caso.