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Storie di comunità

Centro Diurno Disabili

Intervista del dicembre 2020

Giovanna, 56 anni, Coordinatrice CDD di Nembro

Rivedo le prime giornate dell’“era Covid” pensando a quanta inconsapevolezza avessi, anche perché ho un ruolo di responsabilità nei confronti degli utenti e degli operatori. Io personalmente sono sempre stata portata a non essere pessimista e/o allarmista, per cui mi rammarico di avere un po’ sottovalutato la situazione nella sua fase iniziale.

Ricordo che c’era la richiesta da parte degli operatori dell’utilizzo delle mascherine, così come del mettere in atto delle pratiche di distanziamento, ma, contemporaneamente, c’era stato detto dagli organi competenti (ATS) che non ce n’era assolutamente bisogno; per cui vivevamo la richiesta dei dispositivi di protezioni ulteriori quasi come un eccesso di allarmismo.

C’è stata insomma molta confusione e si attendeva fino all’ultimo per avere direttive e informazioni precise. Ricordo, per esempio, che quando è uscito il primo DPCM era domenica e fino alle 10 di sera non sapevamo nulla su quali potessero essere le restrizioni o le regole che avremmo dovuto seguire dal giorno seguente. A quel punto la nostra cooperativa, anticipando le regole ministeriali, ha deciso una giornata di chiusura per avere modo di avvisare le famiglie per tempo; a noi sembrava ovvio che delle persone fragili come quelle che curiamo dovessero essere le persone più tutelate. In modo del tutto inaspettato, il giorno dopo ci è stato intimato di riaprire: è stata una decisione davvero difficile da gestire e da comprendere.

Poi è successo, in modo repentino: Nembro è diventato l’epicentro di questa emergenza sanitaria. Il nostro CDD ha la sede tra la casa di riposo di Nembro e l’ospedale di Alzano Lombardo e la prima persona che è venuta a mancare, il primo decesso conclamato Covid-19, sapevamo essere il signore che faceva attraversare i bambini della scuola elementare situata vicino alla nostra sede. Eravamo davvero basiti, senza parole. Proprio quel giorno, tra l’altro, ci avevano detto che avremmo avuto delle multe per aver deciso per la chiusura in modo autonomo.

È stato il periodo della “Nembro zona rossa”. Come dicevo, dopo il primo giorno di chiusura decisa da noi ci hanno fatto riaprire. Lo abbiamo fatto, ma molti familiari hanno tenuto comunque a casa i loro figli e devo dire che forse è stata una scelta che ci/li ha salvati.

Di settimana in settimana le notizie si aggravavano: le ultime settimane di febbraio sono state un periodo di grossa incertezza e di crescente preoccupazione, così come di difficile gestione del Servizio.

Quelle di febbraio/marzo sono giornate che si fa fatica anche a descrivere come un periodo omogeneo perché il minimo cambiamento di ogni giorno ha provocato delle gravi conseguenze se visto in prospettiva. Le notizie, inoltre, si aggravavano in modo esponenziale.

Poi io credo che come abbiamo vissuto noi, in quel periodo nel nostro territorio, questa crisi sanitaria non l’abbia vissuta nessuno.

Il mese di marzo è stato un mese pesante per quanto riguarda me e il mio Servizio: le notizie gravi diventavano più vicine.

Innanzitutto, avevamo avuto un utente deceduto a metà febbraio. Il suo funerale è stato il 21 febbraio, perciò la settimana precedente l’inizio delle restrizioni, io vi ho partecipato, molti altri gli hanno fatto visita. All’inizio di marzo poi abbiamo avuto la notizia del decesso del papà, della grave malattia della madre (curata in casa) e del ricovero di due dei fratelli in terapia intensiva. Temo fortemente che quel funerale possa essere stato un veicolo di trasmissione: erano ancora i funerali come li vivevamo prima, in cui ci si abbracciava e si stava a stretto contatto per testimoniare meglio la vicinanza emotiva.

Il dramma più grosso è stato quello di una nostra utente, a cui sono morti entrambi i genitori ed è stata anch’essa ricoverata per un lungo periodo. Ma c’è da dire che, tutto sommato, nel nostro Servizio, queste situazioni drammatiche non sono state così diffuse come temevamo: fortunatamente gli utenti sono stati relativamente tutelati.

A marzo cercavo di tenere i contatti con i familiari attraverso chiamate settimanali. Di questo periodo ricordo, al di là della vicinanza che si è creata, gli elementi di forte preoccupazione che vivevano quotidianamente. Non riuscivo a credere a quel che mi era stato riportato e tra l’altro, in quel momento, non riuscivo neanche a verificare se fosse successo. Non potevo uscire per vedere se c’erano i necrologi e, non avevo il numero di telefono dei figli per confermare la notizia. Soffrivamo tutti poi della modalità dei lutti, dalla lontananza all’impossibilità di svolgere il funerale. È stato un periodo di forte sofferenza.

Ma la cosa che forse si ricorda meno è la precarietà delle indicazioni sul da farsi: inizialmente si pensava dovesse durare una settimana, poi dieci giorni, poi un mese e via dicendo. Si andava avanti per tentativi.

All’inizio le telefonate ai familiari erano più che altro per avvisare delle temporanee chiusure, per capire le esigenze degli utenti e delle famiglie o le loro opinioni a riguardo di chiusure o aperture.

Penso sia stato aprile il mese in cui abbiamo incominciato invece a strutturare degli interventi, a pensare che sarebbe stato utile ridefinirli alla luce del perdurare della situazione. In collaborazione con gli operatori e con una nostra esperta si è incominciato a parlare di mandare loro dei video di saluto per far sapere ai nostri utenti che noi eravamo ancora lì per loro.

Gli educatori sono il riferimento di due o tre utenti e in maniera spontanea avevano già iniziato a tenere delle telefonate ai loro assistiti: una scelta a livello personale per non lasciare solo chi gli era più vicino. Successivamente è arrivato però anche l’incarico ufficiale dai nostri dirigenti.

Nella nostra Cooperativa c’è stato il ricovero in terapia intensiva del nostro Presidente, il Sig. Fabrizio Persico, a complicare la situazione e che purtroppo è venuto a mancare nel maggio 2020. Oltre al profondo dolore umano abbiamo dunque dovuto affrontare anche uno sbandamento in termini amministrativi. Come se non bastasse, tra l’altro, anche il Responsabile del CDD aveva dato le dimissioni a gennaio. Praticamente ci siamo ritrovate sole, io e la mia collega (lei vicepresidente della cooperativa), nel gestire questa situazione emergenziale senza i referenti a cui di solito eravamo abituate.

Ad ogni modo ci sono stati dei tavoli di lavoro a livello provinciale, costituiti anche da Confcooperative e dalle rappresentanze dei genitori, nei quali si incominciava a ipotizzare dei progetti di sostegno alle famiglie che prevedevano sia un intervento a distanza che un intervento domiciliare, ed eventualmente un’apertura parziale.

Era sempre più evidente che il periodo di lockdown sarebbe andato per le lunghe. Così ad aprile abbiamo introdotto nuove strategie. Abbiamo incominciato prima di tutto a prendere confidenza noi con i nuovi strumenti di lavoro. L’introduzione di progetti che prevedevano strumenti informatici, che potrebbe sembrare una banalità, ci ha invece nuovamente messo a dura prova. Nell’adottare queste nuove strategie dovevano essere convinti anche gli operatori perché sembrava una cosa un po’ impossibile riuscire a lavorare con i nostri utenti, con le loro disabilità, attraverso questi strumenti telematici. Alla fine, però l’esperienza è stata più positiva di quello che potevamo immaginare.

La stragrande maggioranza degli utenti ha risposto positivamente.

Elemento fondamentale per la buona riuscita di questi progetti è senz’altro stata la risposta positiva da parte dei familiari. Abbiamo inviato video di saluti, letto fiabe, cercato di costruire dei luoghi di micro-socialità con collegamenti di due o tre utenti alla volta. Abbiamo dovuto reinventarci e adattarci a ogni specifica situazione.

Ho sentito forte la volontà e la necessità di adattamento perché ho capito che, anche un semplice contatto telefonico, era davvero importante.

Abbiamo potuto introdurre ulteriori strategie per continuare a offrire il nostro Servizio: a giugno, anche se ormai a ridosso dell’apertura estiva, siamo riusciti a partire con l’assistenza domiciliare e il 29 dello stesso mese abbiamo anche attivato una prima riapertura parziale. Una riapertura particolare perché era stata data la disponibilità alle famiglie di accedere al Servizio, ma rimanevamo libere di scegliere. In quel momento abbiamo dunque tenuto in piedi tre tipi di servizio diversi anziché uno e, credetemi, non è stato semplice. Abbiamo dovuto pensare, creare e coordinare nuovi servizi in tempi brevissimi e mettendo in atto tutte le norme di sicurezza che ormai tutti ben conosciamo, ma che allora erano tutte da costruire. Non c’erano sabato o domenica, così come sera o mattina; ci confrontavamo quasi quotidianamente con nuovi decreti e nuove normative statali e/o regionali e abbiamo cercato di offrire servizi ben strutturati in tempi sensibilmente ridotti rispetto al solito.

Mentre i primi mesi li ricordo come molto dolorosi dal punto di vista emotivo, ricordo più la fatica organizzativa, fisica e mentale del secondo periodo. Ho imparato moltissimo in questo periodo, anche perché molto spesso l’organizzazione era qualcosa di inedito, c’era tutto da fare e da inventare.

I ragazzi sono stati straordinari, anche quelli più gravi o con problemi comportamentali forti hanno reagito bene alle restrizioni e ai nuovi stimoli, lo stesso si può dire delle famiglie. L’assistenza domiciliare ha funzionato e devo dire anche il reinserimento in struttura, cosa per nulla scontata.

Certo, qualche difficoltà c’è stata. Penso, per esempio, agli utenti che si caratterizzano per una certa incontenibilità fisica, ossia che hanno bisogno del contato fisico in genere. Abbiamo dovuto pensare per loro dei progetti ad hoc con l’obiettivo di insegnar loro quali modalità nuove potevano usare come, ad esempio, mandarsi “un bacio che vola” invece che darlo sulla guancia.

Abbiamo dovuto riorganizzare tutto il lavoro, che è stato completamente stravolto da questa pandemia. L’adattabilità, la flessibilità e il progetto individualizzato sono i cardini del nostro operato. Amiamo moltissimo intessere legami di collaborazione, tant’è che avevamo progetti attivi con molti enti: col CDD di Albino, con la scuola alberghiera di Nembro, con la Biblioteca Centro Cultura, la casa di riposo, l’oratorio e le scuole sempre di Nembro. Avevamo anche la nostra attività teatrale, per la quale eravamo riusciti ad attivare una collaborazione con gli studenti dell’Istituto Romero. Tutti questi progetti oggi sono purtroppo sospesi.

Di certo è possibile trovare anche dei lati positivi, o meglio possiamo cercare di tirar fuori il meglio anche da questa esperienza. Ad esempio, ora la nostra quotidianità è meno frenetica, più lenta. Non avendo appuntamenti fissi o orari così rigidi come prima, il tempo delle nostre giornate è più rilassato; il ché forse ci aiuta anche un po’, o meglio è più congeniale ad alcuni utenti che fanno un po’ fatica a stare dietro ai cambiamenti veloci.

Anche se, c’è da dire, per noi ci sono delle difficoltà in più. Penso, per esempio, alla “partita” della temperatura corporea. Si prova la temperatura all’ingresso, anche se c’è l’indicazione i genitori la provino anche prima di uscire di casa. Alcuni nostri utenti hanno però degli sbalzi di temperatura corporea improvvisi che non dipendono da infezioni virali; abbiamo verificato che le persone con tetraparesi spastica, infatti, possono avere episodi di febbre improvvisa anche molto alta e, dopo poco tempo e con solo un po’ di riposo, tornare ad una temperatura normale.

Ora come ora faccio un po’ fatica a tirare le somme di quanto abbiamo vissuto.

A volte ripenso anche solo ad eventi accaduti due mesi fa e mi stupisco di come tutto sia diverso da oggi.  Mi spiace solo che in questo momento si sia persa un po’ quella sensazione di coesione sociale che, pur nel distanziamento, nella prima ondata invece sembrava che ci unisse. Questo orgoglio e questo “compatire” e questo “essere reattivi” anche in positivo. Dobbiamo cercare di essere un po’ più resistenti nel credere in noi stessi, nel credere nel positivo che possiamo costruire. Dobbiamo alimentare una visione positiva. Adesso vorrei, e mi sembra che a volte si veda, che si riesca a trovare quella capacità e libertà di inventarci qualche cosa. Come, per esempio, lo spettacolo della prima della Scala: non si poteva fare la solita serata della prima e si è fatto di più! Si è inventato qualcosa di completamente nuovo.

Ecco, questo è quello che vorrei fare nel CDD con i miei operatori: inventare qualcosa di nuovo, creare occasioni, sentirsi liberi di cercare e provare nuove strade.