Il senso del custodire

di Don Giovanni Gusmini

La natura mortale cerca di essere eterna e immortale attraverso la generazione nell’anima e nel corpo

Platone

Ogni essere mortale cerca di sopravvivere a sé stesso attraverso la generazione. C’è chi insegue l’immortalità attraverso la procreazione dei figli ma chi è fecondo nell’anima e non solo nel corpo genera pensieri, arte, scienza, poesia, e politica. Questi sono i figli più belli e immortali! Guardate i figli che ci hanno lasciato i poeti, le creature di Omero di Esiodo! Gli esseri umani fanno tutto questo per non morire, per restare nell’eternità del tempo.

Platone

“Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano ma sono dovunque noi siamo.”

Sant’Agostino

L’uomo ha da sempre sentito l’esigenza di affidare a un monumentum il compito di custodire la memoria di eventi significativi della propria storia, raccogliendone la narrazione in una forma che potesse affrontare il passare del tempo e la terribile condanna dell’oblio, percepito come una seconda morte, ancora più drammatica della prima.

Il monumento assolve almeno a due funzioni: anzitutto quella di ricordare, cioè di fissare nella memoria ciò che è stato; e poi quella di ammonire, perché la comunità ritiene opportuno trasmettere ai posteri il ricordo di un evento passato come esempio da seguire. Questo vale per ciò che riguarda tanto un fatto positivo, come un atto di eroismo, quanto un fatto negativo, come una tragedia che abbia colpito un singolo o la comunità intera. Le stesse sepolture assolvono a questa funzione.

L’uomo erige monumenti per non dimenticare, per dar voce al passato e per ascoltarne i racconti: tra questi, ad esempio in moltissimi paesi della Bergamasca, ci sono quelli che fanno memoria dei defunti colpiti dalla peste del 1630, delle vittime delle epidemie di colera del XIX secolo, dei caduti delle due guerre mondiali o di altre campagne militari. Attorno ad essi, periodicamente, la comunità si raccoglie per fare memoria, per ricordare, per trasmettere ai propri membri, soprattutto ai più giovani, un ammonimento, la lezione che da quella vicenda si può, si deve apprendere.

La raffigurazione della morte nell’arte

Vedere la morte
Nel territorio bergamasco è presente, con singolare concentrazione, una serie di opere figurative dedicate al tema della morte. Esse attestano una familiarità con questa dimensione della vita che la cultura moderna ha rimosso progressivamente, fino a considerarla spiacevole, prima edulcorandola e poi condannandola al silenzio, estromettendola dalla scena pubblica.

Nella cultura medievale e della prima modernità, invece, la morte segnava l’esperienza quotidiana delle persone, era inquilina frequente delle proprie case, induceva a fare i conti con la fragilità e la caducità della vita, offriva l’occasione per porsi gli interrogativi fondamentali sul senso della vita e sull’eternità. L’arte sacra assolveva a questo compito.

Le forme della devozione privata
Raffigurare la morte significava pronunciare un perentorio “memento mori”: ricordati che anche tu devi morire, devi attraversare la medesima soglia, che un giorno si parerà anche davanti a te. Il timore di essere trovati impreparati induce a rendere sempre più frequente questa rappresentazione, che si può osservare nelle chiese (soprattutto nel contesto degli altari dedicati al suffragio dei defunti), lungo le strade dei paesi (nella forma di “santelle” o, più frequentemente, di cappelle sorte per ricordare i morti di particolari eventi tragici, come le pestilenze), ma anche nelle case, dove si trovavano stampe, dipinti, oggetti devozionali cui era affidato l’esercizio di questo compito.

Qualche esempio. Le nature morte, sviluppatesi come genere autonomo a partire dalla fine del XVI secolo, avevano lo scopo di suggerire, in modo poetico, il tema della caducità della vita: così un bellissimo vaso, pieno di fiori profumati, dei quali alcuni già in procinto di appassire, ricordava che preso tutti sarebbero ineluttabilmente sfioriti. Le stesse splendide composizioni di strumenti musicali rese celebri dal pittore bergamasco Evaristo Baschenis (1617-1677) recano lo stesso messaggio: quegli strumenti, infatti, sono tutti coperti di polvere, nessuno li suona più, al massimo qualcuno vi ha passato sopra un dito, ma poi è passato oltre, rinunciando a restituire loro la voce.

Le forme del culto pubblico
Tornando alle raffigurazioni di carattere pubblico, che dunque esercitavano una funzione comunitaria, sia ecclesiale che civile (al tempo questi due piani erano profondamente intrecciati tra di loro), vanno citati alcuni esempi eccellenti, che segnano in modo estremamente originale il territorio bergamasco.

L’ esempio di Clusone
La prima è la parete dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone, affrescato tra il 1484 e il 1485 dal pittore locale Giacomo Borlone de Buschis. Commissionato dalla Confraternita dei Disciplini di Santa Maria Maddalena per il luogo dove essi si riunivano in preghiera (oratorio, appunto) e dove venivano collocati i corpi dei membri defunti per i giorni della veglia in attesa della celebrazione funebre e della sepoltura.
La grandiosa, scenografica raffigurazione è divisa in tre registri: in quello superiore appare il trionfo della morte, dove la grande “signora” si presenta in abiti regali, con corna e mantello, accompagnata da due scheletri che al suo fianco putano le loro armi (un arco che scaglia tre frecce alla volta e un archibugio) verso le persone che si trovano lì attorno. I tre stanno in piedi sopra un sarcofago che contiene le spoglie di un papa e di un imperatore, a dire che essa colpisce tutti, senza distinzione, a cominciare dalle due massime autorità del tempo. Sul bordo del sarcofago stanno animali che si riteneva potessero dare la morte istantanea e che spesso colpivano inaspettatamente, esponendo quindi al rischio di morire senza essersi potuti confessare o almeno pentire: serpenti, scorpioni, rospi. Tutto attorno si assiepano diverse categorie di persone, che offrono doni alla morte, nella speranza di esserne risparmiati, ma non c’è nulla da fare: i primi, infatti, giacciono già morti al suolo. Tra di essi il nuovo papa, il Doge (Bergamo allora era sotto la dominazione della Serenissima), cardinali, vescovi, principi, notabili e gente comune, tutti in ginocchio, accumunati dalla stessa paura. Sulla sinistra tre cavalieri fuggono davanti alle minacce della morte: uno tuttavia rimane colpito dalla feccia scagliata dallo scheletro e cade a terra. Il riferimento è all’antico racconto dell’incontro dei tre vivi con i tre defunti, molto diffuso in età medievale. Il registro mediano è occupato dalla Danza macabra, in cui una serie di scheletri dalle espressioni beffarde, danza intervallandosi ad altrettanti viventi, rappresentanti delle diverse categorie umane: tra di essi si riconosce il capitano del popolo, il pellegrino, l’oste, il mercante, il bel giovanotto, la bella ragazza e persino uno degli stessi disciplini, che – pur committenti dell’opera e nonostante le opere di penitenza e di carità – non sono risparmiati dal dover seguire lo stesso destino che accomuna l’umanità intera. Il registro inferiore, di cui rimane ben poco, raffigura il duplice esito della vita umana: l’inferno, da una parte, e il paradiso, dall’altra.
Ciò che decide di questo esito è il modo con cui ogni uomo sceglie di condurre la propria vita: una vita virtuosa – come quella cui si dedicano i disciplini – può rendere l’incontro con la morte meno temibile; una vita dissoluta rende certa la condanna, esattamente come lo è la morte. Questo, per l’appunto, è il messaggio offerto dall’affresco nel suo complesso. Lo illustra la grande “Signora” in persona, attraverso la serie di cartigli che tiene in mano e che le danno voce, permettendole non solo di presentarsi, ma anche di rende esplicito il proprio messaggio morale. In essi si legge: “Gionto [e sonto] per nome chiamata morte/ferisco a chi tocherà la sorte; / no è homo chosì forte / che da mi no pò a schanmoare”; “Gionto la morte piena de equaleza / sole voi ve volio e non vostra richeza / e digna sonto da portar corona / perché signorezi ognia persona”; “Ognia omo more e questo mondo lassa / chi ofende a Dio amaramente pasa 1485”; “Chi è fundato in la iustitia e [bene] / e lo alto Dio non discha[ro tiene] / la morte a lui non ne vi[en con dolore] / poy che in vita [lo mena assai meliore]”.

L’affresco come si presenta ora
Ricostruzione di Giovanni Darif (1859)

L’esempio di Cassiglio
Un secondo esempio è la Danza Macabra affrescata sulla facciata della chiesa parrocchiale di San Bartolomeo nel comune di Cassiglio, in Alta Valle Brembana. Datato attorno alla seconda metà del Quattrocento (la chiesa fu consacrata nel 1468), esso presenta il medesimo schema del secondo registro clusonese: scheletri danzanti si alternano a personaggi della società del tempo, tra i quali si riconoscono il papa, l’imperatore con la consorte, un cardinale, il re, un vescovo, un duca, e altri rappresentanti di altre classi sociali. Originale è l’inclusione di un neonato in questa teoria: coraggioso confronto con il tema, al tempo non raro, della morte che si spingeva a colpire anche nella culla. Qui il tema della morte si intreccia con quello dell’amore. Nel medesimo paese si trova un secondo esempio, risalente a un’epoca più tarda, il XVIII secolo: è la parabola affrescata sulla parete laterale di Palazzo Milesi, all’altezza del secondo piano. Da una delle finestre dipinte a trompe-l’oeil si affaccia una ragazza. Ha attirato la sua attenzione un giovanotto innamorato che le sta offrendo una romantica serenata con l’aiuto di due musicisti. Il trionfo dell’amore si trasformerà presto nel trionfo della morte: alle sue spalle uno scheletro ha già scoccato dal proprio arco la freccia che presto colpirà l’ignaro innamorato. Essa lo legherà alla catena alla quale sta già trascinando due vecchietti, al quale il giovanotto si unirà nell’unico viaggio verso l’aldilà, dal quale né l’amore né la tenera età lo hanno preservato.

La danza macabra della Chiesa Parrocchiale
Il trifonfo della morte di Palazzo Milesi

L’esempio di Bergamo
Un terzo esempio è il ciclo di tele conservato presso la chiesa parrocchiale di Santa Grata inter vites in Borgo Canale a Bergamo, dipinte attorno al 1802 da Vincenzo Bonomini (nato e morto in quella stessa parrocchia, 1757-1839). Questi sei pannelli furono donati dal pittore stesso alla sua parrocchia come parte di un apparato decorativo che veniva montato in occasione della commemorazione dei fedeli defunti. Tra di essi spiccano i due che raffigurano la coppia di sposi e la coppia di contadini, dove il tema della morte e della caducità della vita si intreccia, a contrasto, con quello dell’amore. Tra questi personaggi il pittore include anche se stesso e la propria categoria. Un’altra serie molto simile, ma di fattura meno raffinata, fa parte della collezione permanente del Museo Diocesano di Arte Sacra “Adriano Bernareggi” di Bergamo. Questi soggetti avevano il nome generico di macabri, dal termine arabo maquabir, che significa “cimitero”.