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Storie di comunità

Comunità Protetta “Il Girasole”

Luca, infermiere di comunità

Intervista del febbraio 2021

In quanto infermiere in una comunità protetta a Nembro mi sono trovato a vivere e gestire una situazione mai vissuta. Mi occupo di psichiatria e noi, come realtà, siamo da sempre fortemente sottoposti all’isolamento, così come allo stigma. Il mio impegno da vent’anni a questa parte è però sempre stato quello di cercare un’integrazione per queste persone. L’impegno all’integrazione di chi soffre di problemi psichiatrici è sempre stato fonte di stimolanti situazioni e bei risultati; spesso sono stati difficili da raggiungere, ma credo fermamente nella funzione riabilitativa dello stare in mezzo alla gente, soprattutto per le persone con cui lavoro. Con il Covid-19 è crollato tutto.

Innanzitutto, è bene dire che non abbiamo avuto casi di positività all’interno della comunità, o, meglio, abbiamo avuto alcuni casi sospetti che sono stati tenuti in isolamento ma per i quali non è stato fatto un tampone e/o un esame sierologico. Inoltre, abbiamo avuto la fortuna di non avere lutti interni alla nostra piccola comunità. Questa condizione favorevole non ci ha però protetto da situazioni difficili, complesse e non sempre di facile comprensione. La Regione Lombardia, come sappiamo, ha dato delle linee guida molto severe rispetto alle strutture residenziali; queste prevedevano che agli utenti non fosse più concesso andare a casa in permesso o anche solo uscire dalla struttura se non accompagnati da un operatore e che i parenti – almeno per i primi mesi – non avessero in alcun modo accesso alla struttura. Le linee guida regionali andavano quindi nella direzione opposta rispetto a tutto quello che abbiamo sempre cercato di fare e gli utenti hanno fatto molta fatica ad adeguarsi. Quelli che avevano la possibilità di andarsene hanno chiesto le dimissioni e sono stati lasciati andare anche se non avevano finito il percorso terapeutico che avevamo previsto, sapevamo infatti che la realtà che avrebbero vissuto dentro la comunità con tali restrizioni sarebbe stata comunque deleteria.

Ci siamo poi trovati a non avere più contatti anche con chi, pur avendo terminato il percorso residenziale, considera la comunità un punto di riferimento per il proprio percorso iniziale sul territorio. Anche per loro non era più possibile avere contatti con noi.

Tutt’oggi questa situazione di chiusura e incertezza permane; cambia il colore della zona, ma non cambia quello che possiamo fare. Qualcosa del loro percorso è stato conservato: chi aveva un lavoro ha potuto tenerlo, altri hanno continuato a svolgere delle attività risocializzanti presso il centro diurno (dunque comunque sempre all’interno di uno spazio psichiatrico). In questi mesi ci siamo trovati a dover ricostruire il “manicomio” che era stato chiuso nel 1978 con la Legge Basaglia e devo ammettere che per me è stato pesante, anche a livello personale. In passato ho lavorato cinque anni nel reparto SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dove l’infermiere, oltre alle funzioni infermieristiche, ha anche dei compiti di custodia e alla fine ho lasciato il reparto perché non mi vedevo in questa figura. Oggi mi ritrovo a dovere assolvere le stesse funzioni di custodia che non mi appartengono. Sono consapevole che la psichiatria sia alle dipendenze del Ministero degli Interni e in qualche modo regolata dalla polizia, ma credo sia fondamentale che al centro di ciascun percorso psichiatrico ci sia la funzione riabilitativa e di risocializzazione, non una chiusura fine a se stessa. Oggi, febbraio 2021, fatichiamo però a fare quello che vorremmo. È proprio evidente che la preoccupazione maggiore è quella di tenere isolate queste persone, ma così facendo la questione sanitaria personale viene messa in secondo piano – cosa che si addice ad un’emergenza, ma non a lunghi periodi temporali. Ad oggi, per esempio, loro non hanno mai fatto un tampone. Devono stare lì, chiusi all’interno di una comunità che ora invece che proteggerli li imprigiona. Solo ieri (primo febbraio 2021) gli infermieri hanno fatto un piccolo corso per poter fare i tamponi e finalmente, a distanza di quasi un anno, inizieremo anche noi a fare i tamponi ai nostri utenti. Lo stesso vale per i vaccini, che sono stati fatti agli anziani delle case di riposo così come a noi, personale sanitario, ma che per ora non sono stati programmati per i nostri pazienti, che sono stati completamente dimenticati.

Qualcuno arriverà forse a pensare anche a loro prima o poi.

Noi ci pensiamo ogni giorno, ma con gli strumenti che abbiamo non abbiamo modo di aiutarli davvero. Cerchiamo di fare in modo che quello che accade nella nostra comunità sia simile a quello che accade in tutte le case: diamo molta cura alla preparazione dei pasti, che sono diventati ancor di più un importante momento di scambio e comunicazione, abbiamo cercato di inventarci dei giochi, di coinvolgerli in attività ludico-ricreative e fargli sentire di appartenere a una comunità, seppur piccola e circoscritta. I problemi con i quali ci dobbiamo confrontare sono di varia natura. Da una parte i nostri utenti sono spesso poco sensibili agli stimoli e non sempre sono in grado fornirne di interessanti; questa è per loro un’abilità che va allenata e che solo con grandi sforzi e nella continuità di attività quotidiana può essere mantenuta o implementata. Dall’altra, non abbiamo gli spazi adatti. Per esempio, abbiamo iniziato un’attività di giardinaggio, ma non abbiamo né un giardino, né un orto: utilizziamo dei vasi. Adesso stiamo progettando un’attività di teatro, ma anche in questo caso abbiamo dovuto cercare degli spazi più grandi rispetto ai nostri. Grazie a delle reti sociali di cui disponiamo, siamo in contatto con la Cascina Terra Buona e, fortunatamente, saremo loro ospiti e potremo occupare uno dei loro spazi. Cerchiamo davvero di inventarci di tutto per aiutarli a stare bene e per garantire almeno una parte dei loro diritti. Quest’estate siamo stati in Liguria, anche se solo per un giorno. Ogni anno noi progettavamo delle vacanze, come fanno tutti, ed erano anche dei viaggi importanti, tant’è che siamo stati anche in Francia, Spagna, Inghilterra e abbiamo negli anni toccato tanti punti d’Italia. Quest’anno, per via delle restrizioni, abbiamo potuto fare solo un giorno e abbiamo comunque cercando di far sì che gli utenti non venissero mai a contatto diretto con altre persone – che è l’esatto opposto di quello che di solito ci impegniamo a fare, ossia incentivare lo stare insieme e la socializzazione. Altre attività serali che cerchiamo di mantenere e che coinvolgono la psicologa – perché siamo un’equipe multidisciplinare con infermieri, psicologi, medici e psichiatri – sono la creazione di gruppi di discussione a seguito della lettura di fumetti o di materiale video.

Rispetto alle stringenti limitazioni del primo lockdown, abbiamo potuto attuare alcune variazioni a partire dall’estate. Per esempio, sono ricominciate le visite dei parenti: una persona per utente, una volta alla settimana e in un ambiente protetto. Il problema, anche in questo caso, è che non abbiamo gli spazi: non possono entrare in struttura e, ancora oggi, usiamo un cortiletto esterno. Se il tempo è troppo rigido, utilizziamo eccezionalmente la sala riunioni, che ovviamente viene ogni volta sanificata. Cerchiamo inoltre di uscire tutti i giorni per una passeggiata, anche se dobbiamo stare sempre vicino alla struttura.

Non so cosa si sarebbe potuto fare di meglio, ma queste persone sono sole e non dovrebbero esserlo. In questo periodo la preoccupazione principale fosse la tutela della salute fisica, ma non basta. Gli utenti hanno perso moltissime capacità, oggi è molto più difficile stimolarli e non so se riusciremo a riportarli al livello in cui erano prima – anche se quel livello era già insufficiente per una “normalità” e richiedeva appunto un percorso riabilitativo. La situazione è grave e la salute psichica dei nostri pazienti è davvero messa a repentaglio: quest’anno, per esempio, abbiamo avuto un aumento dei ricoveri in ospedale per motivi psichiatrici.

Ovviamente adottiamo tutte le regole di distanziamento e tutela della salute di noi stessi e degli altri. Gli spazi, però, sono quelli che sono; basti pensare che abbiamo un solo bagno per le donne e uno per gli uomini. Inoltre, essendo noi infermieri, nei mesi di marzo e aprile abbiamo prestato servizio anche in ospedale. E andavamo proprio negli ambienti più infetti e questa cosa metteva a rischio la comunità, ma, vista l’emergenza, questo pericolo non è stato considerato (o meglio, è stata valutata come la soluzione migliore).

Adesso abbiamo la voglia di andare oltre, di ricominciare. Stiamo chiedendo per esempio l’accesso ad uno spazio del Comune di Nembro per proseguire con le riunioni di confronto, che per noi sono fondamentali e che abbiamo dovuto sospendere in questi mesi. Come operatori, spesso lavoriamo anche da soli con i ragazzi e questo rende necessario un continuo confronto di ciascun lavoratore con tutti gli altri. Le scelte che ognuno di noi prende devono sempre essere scelte che rispondono ad un piano terapeutico individualizzato e condiviso con l’intera squadra; questo piano necessita d’altronde di un confronto continuo per poter essere riadattato in base alle esigenze che man mano sorgono. Solitamente potevamo fare affidamento su di una riunione settimanale nella quale ci incontravamo tutti, ma da quando c’è questa emergenza non ci è permesso incontrarci tutti insieme e purtroppo può capitare che non si veda direttamente un collega per intere settimane o comunque non sia mai possibile confrontarsi con tutta l’equipe. Avendo uno spazio più grande, potremmo ricominciare a riunirci in tutta sicurezza, migliorando il nostro lavoro e proteggendo la nostra salute. Un fattore molto importante da considerare è anche la pesantezza che ci portiamo addosso e la necessità, anche per noi, di un confronto con i colleghi e con chi conosce bene ciò che stiamo passando. Stiamo comunque usando i vari supporti informatici, tant’è che anche alcuni utenti stanno ancora facendo i colloqui con gli psicologi e gli psichiatri da remoto. Una cosa davvero assurda perché un colloquio di questo tipo necessità di una presenza fisica; sono infatti convinto che quando una persona deve parlare di cose difficili anche solo da esprimere abbia bisogno di una vicinanza fisica. Certo, se questo è l’unico strumento che abbiamo lo usiamo e cerchiamo di trarne il meglio e ovviamente il sostegno agli utenti non è così mai stato sospeso, ma sono certo che si potrebbe fare di meglio. Ciò che manca sono le risorse.

Noi abbiamo sempre favorito il rientro a casa degli utenti, anche solo il fine settimana. Alcuni utenti si sono però rifiutati di uscire; avevano infatti paura ad uscire senza la certezza che qualcosa sarebbe cambiato e non sarebbero più potuti rientrare. Per loro la comunità è l’unica soluzione, per quanto difficile, ma hanno così perso un’occasione importante di socialità all’interno del proprio nucleo famigliare.

Per tutti loro uscire è comunque sempre una difficoltà. Se siamo noi che glielo impediamo, gli utenti si “siedono” e perdono ogni tipo di stimolo. Si stanno abituando a una routine che diventa completamente paralizzante. Ogni nuovo progetto diventa difficile da far partire; un esempio è il corso di teatro, che solitamente riscuoteva abbastanza interesse, e che questa volta ha richiesto tutto il nostro impegno solo per avere un minimo di adesioni. È un grande dolore per noi vedere il loro disinteresse, il loro essere restii alle nuove opportunità. Qualche giorno fa la Lombardia è rientrata in zona gialla e, sulla scia dell’entusiasmo di questa nuova condizione, ho chiesto ai ragazzi dove avrebbero voluto andare; non ho ricevuto alcuna risposta. Per quanto le nostre attività non si siano mai fermate, è venuta meno la tensione emotiva. Non c’è più partecipazione. Una volta facevamo ginnastica in cortile, una partita. Oggi le stesse proposte cadono nel nulla. Riesco giusto a fare qualche partita a carte, ma niente più. Non hanno più prospettive.

Speriamo solo di poter ripartire dalla vaccinazione di massa.